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L'esperienza politica personale nella scuola dell'obbligo per spiriti liberi

Per il sottosegretario all'istruzione Davide Faraone, l'autogestione e l'occupazione ("esperienze di grande partecipazione democratica") rappresentano gli unici momenti realmente educativi per gli studenti. Lo stesso Faraone si vanta di aver scoperto la propria vocazione politica durante un'occupazione.

C'è chi si è scandalizzato delle sue parole.
Vergogna, ipocrisia dei soliti politicamente corretti. 
Ma dove sono andati a scuola e, soprattutto, come hanno partecipato alla vita scolastica, tutti coloro che si meravigliano di scioperi ed autogestioni?

A me piace invece, da sessantenne, trovare un quarantaduenne che ricorda, e con piacere, la partecipazione alle autogestioni, ma, soprattutto, ha il coraggio di esprimerlo.

Mi fa piacere che, dopo lo tsunami del consumismo anestetizzante, ancora ci siano ragazzi in grado di esprimere i propri malesseri e lo facciano in maniera politica.
Sì perché la politica è partecipazione, è condivisione ma anche scontro dialettico tra spiriti liberi; e questo dovrebbe insegnare la scuola. 

A presidi e professori delle scuole superiori che sembrano risvegliarsi in un mondo sconosciuto, vorrei ricordare che anche loro sono frutto di questa scuola, ma soprattutto sono elementi dinamici che navigano a vista tra le contraddizioni in essa presenti, presi in mezzo tra la necessità di insegnare una cultura inalterata, e la necessità di adeguarsi ad una società continuamente alterata dal cambiamento, e di cui fanno parte, come i propri allievi e le loro famiglie gioventù.
Una sorta di pugili sul ring, obbligati ad essere mobili per evitare i colpi che potrebbero metterli a tappeto.

Non c'è peggior pompiere di colui che fu incendiario, oppure al tempo in cui furono essi stessi studenti, facevano forse parte di quella schiera di assenteisti che non partecipavano su suggerimento dei genitori apprensivi o per propria scelta ludica e didimpegnata?

Gli educatori scolastici dovrebbero sempre ricordare di aver scelto un compito ingrato che li accomuna e li oppone alle famiglie, quello di essere educatori di giovani adolescenti, categoria difficile e piena di contraddizioni, per statuto; eppure amanti della coerenza e alla ricerca di cause da abbracciare e per cui combattere.
Se a questo aggiungiamo l'interferenza educativa della famiglia e della società, il compito si complica ulteriormente.

Ai genitori, dico, sveglia, avere un figlio non significa mettersi una medaglia, ma conquistarla sul campo, combattendo al suo fianco; e le battaglie durante l'adolescenza sono le più dure, perché, a volte, si è bersagliati anche dal fuoco amico. 
Non si tratta di difendere a spada tratta il proprio territorio, figlio o figlia, né di soffrire in segreto, pensando di essere gli unici ad avere il mostro in casa. Dialogo e confronto dentro e fuori casa, collaborazione tra educatori, vicinanza e dialogo, attenzione ai ragazzi, questo è vincente e fa crescere tutti ed ognuno.

Da ex ragazzo, padre e nonno, insegnante, ritengo che l'importante per un educatore, non sia meravigliarsi, o peggio, irrigidirsi ed opporsi, ma coinvolgersi, dialogare, cercare di capire le ragioni, utilizzando creativamente le situazioni per educare educandosi, proporre andando oltre, utilizzando gli strumenti dell'esperienza, della conoscenza, della testimonianza e della coerenza tra il dire e il fare. 

Quando da padre degli anni '90 ho assistito, nella scuola dei miei tre figli, ad un periodo di addormentamento delle coscienze, mi sono preoccupato; vedevo adolescenti troppo "normalizzati" dalle scelte degli adulti, dalla droga del benessere e dell'avere, dell''edonismo ed egoismo.
Ebbene i risultati sono davanti agli occhi di tutti; un'impoverimento etico, culturale, politico, sociale, l'assuefazione allo status quo con schiere di fuggitivi dalle responsabilità, ancor prima che dall'Italia, scarsa partecipazione alla politica, cominciando dalla partecipazione al voto. 

Oggi, ancora una volta, come ai tempi della scuola, non avrei voluto scendere in campo, ma il dibattito scatenato sul tema scuola, e soprattutto il mio ruolo di nonno, non mi può far esimere dal raccontare la mia esperienza personale di liceale.

Erano gli anni '70 del 1900, lo scorso secolo; per l'esattezza il 1974.
Dopo essere stato un alunno dei Gesuiti dalle medie fino al quarto ginnasio, non ero felice del percorso che mio padre, mi aveva imposto in buona fede, ritenendolo più adatto al mio carattere umanistico.
Mi feci bocciare, prima ribellione adolescenziale alla quale mio padre, non si oppose ottusamente trasformando un insuccesso in opportunità; quale grande uomo, apprezzato e ricordato per la sua cultura e testimonianza di onestà intellettuale; con le sue larghe vedute, mi spiazzò, educandomi con l'esempio come dovrebbe fare ogni educatore, testimoniandomi che nulla deve essere mai calato dall'alto, imposto per dogma, soprattutto nel percorso educativo.

Si mise e rimise in discussione ciò che gli era sembrata una scelta logica e ponderata; e non lo fece da solo, ma mi coinvolse rendendomi partecipe e responsabile delle mie scelte.

Allora non c'era una grande offerta scolastica com'è oggi, e già al tempo dei miei figli, né l'informazione, le giornate di apertura delle scuole per la conoscenza dell'offerta formativa. 
Così, esclusi classico, scientifico, ragioneria, partendo dai miei interessi indole e talenti di allora,non rimaneva che l'area artistica.
Aprimmo un lungo confronto con mio padre con proposte e contro proposte. 
Durante le lezioni di greco e latino, sotto il banco, disegnavo progetti di chiese ed edifici, ma amavo molto anche la musica classica e non mi sarebbe dispiaciuto suonare l'organo; ma, alla mia proposta per il Conservatorio, mio padre, provetto violinista, se pur ingegnere architetto ed urbanista, oppose l'esperienza fallimentare dell'anno di pianoforte che non portò a nulla, rilanciando con il liceo artistico. Si trattava pur sempre di un liceo, aveva tra le sue materie quell'architettura che mi piaceva abbozzare sotto il banco, anzi, il diploma del biennio architettura era in parte equiparato ad una piccola laurea e permetteva di insegnare; unica mancanza, la filosofia che almeno per l'estetica, non avrebbe guastato.

Così, palla al centro, nel 1974 ricominciavo a vivere la nuova esperienza che avrebbe segnato tutta la mia esistenza personale e professionale.

Venni catapultato da una scuola disciplinata, quella dei Gesuiti, in una scuola che, allora, veniva perfino osteggiata da molte famiglie, ritenendola ambiente di perdizione, pieno di drogati e spostati.
Non più di altre scuole, credetemi.

Nonostante tutto, il liceo artistico in quegli anni, aveva un gran successo e gli istituti, solo a Roma, lievitarono fino a cinque sedi tra centrali e succursali, che si erano affiancate alla storica via Ripetta, dirimpetto all'Accademia di Belle Arti.
Di fatto quindi, per il primo anno, riuscii a trovare posto nella succursale del IV Liceo Artistico di via Beata Maria de Mattias, che si trovava in via Lungro, sull'Appia nuova, al Quarto Miglio.


Così la prima avventura della mia vita, fin lì svoltasi tranquillamente senza scossoni, fu raggiungere il plesso scolastico che si trovava sì a Roma come me, ma a due ore da casa. 
Roma è grande, vasta, ampia, ed io non avevo motorino; quindi ero costretto a prendere l'unico autobus che raggiungevo in venti minuti a piedi da casa, arrivare all'Eur e prendere la metropolitana B fino alla stazione Termini, da dove partiva il tram che portava a Capannelle. 

Allora la scuola iniziava ancora il 1° di ottobre e fino ai primi di novembre le lezioni si svolsero con una certa regolarità, fatta salva qualche chiamata in assemblea, una novità assoluta per me come per i miei coetanei appena usciti dalla scuola media; allora un po' più ingenui ed ovattati dei ragazzi di oggi.
Come asini in mezzo ai suoni, noi, in balia di scalmanati, più grandi, agitatori con agganci esterni, i cosiddetti extraparlamentari di sinistra.

Ma erano anche i tempi dell'incipiente rivoluzione democratica nella scuola, con la legge sull'istituzione dei Consigli d'Istituto per la rappresentanza e la partecipazione delle famiglie e degli alunni alla conduzione condivisa delle scuole.
Pertanto, le assemblee, interminabili, si incentravano sulla nuova legge e sui decreti delegati che di lì a poco sarebbero stati emanati per attuare la legge.

La partecipazione alle assemblee, colpevolmente, era libera, lasciandola così completamente in mano agli extraparlamentari esagitati, in quanto i miti se ne tenevano lontani.
Ma io, che già dall'età di 13 anni, amavo seguire mio padre alle interminabili riunioni politiche, decisi di partecipare, ed un giorno, di prendere la parola.

Per carattere ed educazione, sono sempre stato un individuo convinto dell'importanza di distinguermi dalla massa, soprattutto quella silenziosa.

Così, fui guardato come il ragazzino che nella folla, grida "il re è nudo"; improvvisamente avevo spezzato l'idillio, il cerchio magico, inserendo un contraddittorio, una voce fuori dal coro.

Ricordo sei ore al giorno di dibattiti ripetitivi, contrapposto a chi faceva del sei politico una bandiera e non voleva capire la logica del ragionare, solo chiacchierare a vuoto; immersi in una cortina di fumo che si tagliava col coltello, comprendente quello delle canne di marijuana. Fu allora che decisi di iniziare anche io a fumare, ma, ancora una volta, a modo mio, con un mezzo che facesse, da solo, tanto fumo quanto e più di tante sigarette assieme, la pipa, che da allora non abbandonai più.

Le assemblee, non per niente, si svolgevano in palestra, e furono proprio una palestra politica, proprio come afferma il sottosegretario Farone.

Comunque le assemblee, come ogni anno, si trasformarono in occupazione, e la protesta terminava come era cominciata, col rientro in classe a quindici giorni dal Natale, finendo a tarallucci e vino.
Dopo le vacanze natalizie, appropinquandosi la fine del quadrimestre, tutto rientrava nei ranghi.

Come per i cuccioli del regno animale, il tutto serviva a mimare la vita adulta, ma senza portare a nulla di concreto, in quanto gli adulti se ne tenevano fuori.

Arrivato al secondo anno, riuscii ad avvicinarmi di sede, spostandomi dalla succursale alla centrale, in via Beata Maria de Mattias, oggi intitolata al pittore Mafai, tra Porta Metronia e piazza Epiro.



Avevo lasciato sull'Appia quei miei amici extraparlamentari ed il mio primo amore Rita Rubertini, ma ritrovai altri extraparlamentari ed altre assemblee.
17 anni, alle prime, inizio similmente a tanti altri come mio solito, defilandomi.
Il mio atteggiamento, inizialmente fu di disimpegno, preferendo occupare quei giorni e quelle ore di inutili schermaglie, dedicandomi ai miei interessi artistici, nella mia soffitta studio a leggere disegnare ed ascoltare musica.
Poi, passando i giorni, la mia coscienza veniva risvegliata, cominciava dentro un’insofferenza crescente, la necessità di dire, non sono d’accordo e di farlo anche per la solita minoranza silenziosa; e mi riaffacciavo in palestra.
Bisognava pur trovare il coraggio per scendere nell’arena monopolizzata dalla sinistra extraparlamentare ed esagitata.

Tra l'altro era il 1975 l'anno della partecipazione istituzionalizzata con le prime elezioni per la costituzione dei Consigli d'Istituto.
Il copione fu recitato come al solito, assemblee fumose di sigarette e di chiacchiere, con occupazione finale, ma venne il tempo della presentazione delle liste e dell'ingresso della politica vera nella scuola.

Gli extraparlamentari, che aderivano a Lotta Continua ed Autonomia Operaia, e fiancheggiavano le BR (Brigate Rosse), rimasero fuori dalla tenzone, preferendo il disturbo, come loro abitudine.
Disturbo non sempre pacifico, che li fece arrivare a buttare giù per le scale il professor Astengo, giovane assistente di architettura vicepreside, sindacalista della CGIL, sigaro in bocca e comunista dichiarato; al fondo della rampa minacciandolo con la pistola, come fecero anche con me.
Crearono momenti di tensione, ai quali ricordo la volta in cui, il mio pacifico padre prese parte chiudendo la porta dell'istituto e difendendo la posizione a suon di urla.
Terrorizzavano i miei compagni moderati che, come d'abitudine, disertavano le assemblee, facendomi fare una battaglia di minoranza, nella certezza non dimostrabile di avere un seguito di maggioranza.
Per fortuna, anche se con fatica, riuscii a dimostrarlo con l'elezione al Consiglio d'Istituto.

Gli schieramenti furono tre: la lista della FGCI (Federazione Giovanile Comunista), del mio compagno Corrias, pezzo grosso della Federazione, che aveva come sponda il signor Monteleone, uno dei genitori che poi fu eletto tra i rappresentanti della categoria genitoriale; la lista di Comunione e Liberazione che in nessun modo volle unire le forze con la mia, pur moderata, che chiamai, su suggerimento di mio padre, MCS (Movimento Comunità degli Studenti).

I genitori nelle loro liste ricalcarono gli schieramenti politici nazionali, ma con figli rappresentativi dei vari atteggiamenti adolescenziali nei confronti della scuola e della società; Monteleone, come detto prima, presentò una lista Comunista, padre di una figlia politicamente disimpegnata, il signor Massara dalla figlia frikkettona, una lista socialista, e papà Giovanni detto Vanni, una di centro. Naturalmente furono eletti tutti e tre.

La mia lista moderata, ritenuta di minoranza, aveva un nocciolo duro costituito da pochi fedelissimi che avevano il coraggio di metterci la faccia, a cominciare dal mio amico e braccio destro Claudio Lucantonio, e da un gruppo di ragazze agguerritissime di cui ricordo i visi ma non i nomi, com'é strana la memoria soprattutto la visiva, fatto salvo che per Rita Destro Bisol dalla carnagione di porcellana e i capelli rosso carota e la sua amica del cuore, e Rosa Sapuppo.

Stabilimmo un programma di dieci punti, naturalmente soprannominato dagii avversari i dieci comandamenti, e stampammo un manifesto che, prevedendo sarebbe stato strappato, usammo in cianografica in più copie, in modo da poterlo riattaccare; risultato, gli extraparlamentari, che mi accusavano di essere demoscristiano, all'ennesimo strappo, irritati anche dalla mia moderazione, mi assalirono e accartocciato il manifesto, me lo infilarono in bocca.


Allora non avevamo computer e stampanti, e i nostri volantini li ciclostilammo (il ciclostile, come recita Wikipedia, è un sistema di stampa meccanico oramai obsoleto, largamente utilizzato nel XX secolo, per produrre manualmente stampe in piccola tiratura e a costi estremamente contenuti se paragonati con quelli della stampa industriale; Si basa fondamentalmente sullo stencil, ovvero il trasferimento dell'inchiostro alla carta, durante la fase di stampa, attraverso una maschera sagomata (matrice). La matrice è costituita da un foglio estremamente sottile (carta di riso), rivestito da uno strato ceroso, incollato sul lato superiore ad una striscia di cartoncino dotato di fori di riferimento per l'aggancio successivo al rullo di stampa. Il foglio incerato è accoppiato a un sottile foglio sottostante simile alla carta carbone, che viene lasciato in sede durante la produzione della matrice, al fine di rendere visibile la scrittura (altrimenti invisibile). Dopo la produzione della matrice questo secondo foglio viene rimosso prima di iniziare il processo di stampa)

Riuscimmo a vincere le elezioni e lo avremmo fatto per i tre anni successivi (la componente studenti rimaneva in carica solo per un anno); io fui cooptato per essere il rappresentante della lista che si sarebbe seduto al tavolo con le altre componenti.
Questa è politica partecipata ed anche questa è educazione alla vita.

Fu durante l'esperienza consiliare che, avendo un diverso rapporto con i docenti, per altro già molto aperti anche in classe, che venni a sapere di una speciale autogestione formativa prevista per legge per i licei artistici; in parole povere, quello che altri studenti chiedevano come concessione, noi lo avevamo nel nostro statuto.
Grazie a questa particolarità, autogestione e cogestione, fu una delle mie proposte che portarono a cambiare l'ordine degli studi, senza cambiare il risultato finale. 
Tutto partiva dal fatto che, a causa dei tempi persi per assemblee ed occupazioni, i programmi venivano falsati e ci si ritrovava all'esame di maturità, fermi all'Arte del '200, senza conoscere affatto la moderna e contemporanea; scandaloso per dei futuri artisti contemporanei. Pertanto, senza penalizzare, né gli allievi né la didattica, l'idea fu l'adeguamento dei programmi ai tempi, colmando i periodi mancanti attraverso una sinergia tra le materie, autogestendo e cogestendo le didattiche, e raggiungendo l'arte moderna e contemporanea attraverso lo studio del periodo mancante sul Bignami, salvo approfondimenti a campione.
Morale della favola, rischiai di non passare la maturità perché accusato dal presidente di presunzione. 
Attuammo la vera autogestione e cogestione, facendo collaborare e coinvolgendo i professori, tutti professionisti dell'arte che, attraverso le loro conoscenze, arrivarono ad invitare, perfino il professore universitario Maurizio Calvesi che tenne alcune lezioni sul Futurismo.

Anni '70, non esisteva internet e men che meno i Social Network, ma il Movimento Comunità degli Studenti, riuscì a costituire una rete, diventando un vero movimento di comunità, attraverso il collegamento con amici che frequentavano altri istituti romani e non solo; che avevano presentato liste analoghe alla mia, e vivevano situazioni simili, contribuendo a sfatare l'unicità dei pregi e difetti di questo o quell'istituto o indirizzo scolastico.
Ricordo che l'unico modo di condividere le nostre esperienze, era riunirsi in una sala, ed una volta, arrivammo ad essere ospitati perfino nell'aula magna della DC (Democrazia Cristiana), nel mitico palazzo in piazza Don Sturzo all'EUR, sede operativa del partito.
Questo invito fu reso possibile a seguito degli sviluppi inattesi dell'attività intrapresa a scuola.

Infatti, un giorno, partecipando ad un convegno di un sindacato del personale scolastico, sapendo del mio impegno, venni invitato a fare un intervento; era lì anche il dotor Rino Cervone, segretario dell'on. Aldo Moro. Così, a sorpresa, qualche giorno dopo, mi arrivò un invito a presentarmi al Senato, in piazza della Minerva, a Roma, per un incontro con l'on. Moro.
Per indole e per età ero timido, ridotto un pizzico, ma il colloquio fu lungo e cordiale, e Moro, dopo essersi complimentato per l'impegno profuso nella scuola, mi chiese di rappresentare la sua corrente al tavolo della Consulta per la rifondazione del Movimento Giovanile della DC, sciolto dal segretario Fanfani.
Alla prima riunione in Piazza del Gesù, sede storica del partito, mi ritrovai assieme ai giovani che avrebbero fatto la politica della "seconda Repubblica", i Casini e i Follini.
Probabilmente ero il più piccolo, e presi la parola per un intervento che per timidezza mi ero scritto; ma siccome, sempre per timidezza, mi feci coraggio ad intervenire per ultimo, essendosi fatto molto tardi, causa la poca discrezione dei primi, avevo tagliato ed asciugato i miei pensieri: eppure, sciolta la riunione, il segretario del partito, l'on. Amintore Fanfani, che l'aveva presieduta, mi si avvicinò facendomi i complimenti.
Morale della favola, decisi che fare politica non mi piaceva, perché troppo parolaia e poco concreta; e non era nemmeno tempo di trasmissioni, confronti, dibattiti, scontri politici televisivi. Probabilmente non mi appartenevano neanche quell'ambizione e scaltrezza che avevano gli altri.

Comunque fu una stagione della vita nella quale imparai a fare politica da cittadino, imparai che essere partecipe costruttore della realtà in cui si vive è essere cittadini attivi e non popolo passivo.

Ragazzi, siate ambiziosi e rivoluzionari, ponete domande ai vostri educatori ed esigete risposte; e se non vi soddisfano, metteteli in discussione.

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