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Diario di un viaggio a ritroso nel tempo in Albania, un bel paese ospitale pieno di contraddizioni


Agosto 2010, 20 anni dopo, come i 3 moschettieri di Dumas, torno a visitare l'Albania per 10 giorni come un amico lontano ma non dimentico, per vedere, documentare e raccontare con le immagini, qual'è la reale situazione, come mia abitudine, al di là di false informazioni, preconcetti e stereotipi diffusi dai nostri media. 
Il mio primo viaggio si svolse nel 1992 al seguito dell'allora ministro Boniver in visita ai nostri militari dell'”operazione Pellicano” che portava aiuti al paese appena uscito dall'era dittatoriale di Enver Hoxha. 
20 giorni tra Durazzo e quella Tirana, capitale che fino a qualche mese prima faceva rima con tirannia. Un viaggio a ritroso nel tempo in un paese a un'ora di aereo dall'Italia ma lontano di almeno 50 anni, allora come oggi, dalla civiltà occidentale.
I ricordi rimasti negli occhi e nel cuore, di un paese incredibile, punteggiato senza soluzione di continuità, come un corpo col morbillo, da bunker in ogni dove, circolari, piccoli per singoli e grandi per gruppi familiari, come collinette lungo le strade tra i palazzi; nei campi i trattori facevano lo slalom per arare la terra. 
Città con palazzi, simili ai nostri popolari ma costruiti come i nostri abusivi; non rifiniti, pieni di parabole satellitari; un gran caos estetico. 
Bambini che giocavano nelle strade polverose, e uno di loro che portava affettuosamente a spasso una pecora al guinzaglio. 
Pochi negozi con una bilancia sul bancone e alle spalle scaffali vuoti. 
Niente bar; il che mi costringeva a far colazione sulla piazza della stazione ferroviaria di Durazzo dove una donna, da una finestrina, vendeva una sorta di schiacciatina fritta e zuccherata, incartata nelle pagine strappate ad una Divina Commedia, la cui prima edizione risale al 1472, praticamente coeva al primo documento scritto in lingua albanese: una formula di battesimo del 1462, scritta dall'arcivescovo di Durazzo per permettere alle famiglie di battezzare i bambini nelle proprie case, a causa della repressione subita dalla religione e dal Cristianesimo (vedi fonte).
La ricerca di un buon caffè alla turca, trovato al bar di un’industria pesante, offerto dagli operai disoccupati, assieme all’immancabile bicchierino di raki. 
I pasti a base di hamburger bruciati e patatine fritte, in un improbabile albergo creato in una villa della nomenclatura dell’ex regime. 
Il coprifuoco di un paese senza regole.

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La prima volta mi aggirai documentando la realtà visibile ad un ospite discreto; oggi, invece, mi è data la possibilità di conoscere e capire cultura e tradizioni di questo popolo senza voce, né con una vera fisionomia, che non sia quella di invasori fastidiosi per le nostre sicurezze. 
Non persone, ma massa incivile violenta delinquente, che in tanti vorrebbero rimandare indietro, dove, nessuno lo racconta mai.
L'occasione del viaggio, questa volta mi è data dalla visita di cortesia ai mie consuoceri; infatti la mia figlia più grande Giovanna ha sposato Skelzen, un ragazzo albanese originario di Fjer, rendendomi nonno di Sara.
Eppure parliamo di un popolo a noi comune, non solo per storia (vedi Storia dell'Albania), ma per quel Mediterraneo, da sempre, unificante e respingente allo stesso tempo.
Scoprirò già dal viaggio di andata, della riconoscenza dei tanti albanesi naturalizzati italiani e della grande simpatia, nei nostri confronti.
Noi, dimentichi della storia passata remota, che ci ha ha visti, ancor prima che invasori, strumenti di unificazione, attraverso scambi culturali, economici e di civiltà, ai tempi dell'Impero Romano, in tutta l'area europea, mediterranea, balcanica e mediorientale; dell'ospitalità concessa nel 1400 durante la prima “invasione di massa” agli albanesi stabilitisi nell'Italia meridionale, quegli Arbëreshë che tanto hanno influito sulla cultura calabrese (vedi storia) . 
E più prossima che ci fa ricordare, da parte di qualche anziano, perfino con una qualche simpatia, per la nostra invasione ai tempi del fascismo; per finire con il presente, con la nostra televisione che ha creato negli albanesi, soprattutto delle giovani generazioni, un atteggiamento di fratelli minori, affezionati e ammirati.
Così come ogni viaggio intrapreso con la massima apertura mentale e curiosità, mi incuriosisce di confrontare ciò che avevo conosciuto de visu, pregi difetti e arretratezza, con le modernizzazioni intervenute nel paese nel decennio passato, con il valore aggiunto dalla fortuna di entrare da ospite, nel vivo di una famiglia albanese.
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I CONTRATTEMPI DELLA PARTENZA

Come mia abitudine di viaggiatore lento, non prendo l'aereo, perché ritengo che il bello del viaggiare sia percorrere le strade di terra e di mare, con tempi a misura d'uomo, senza salti temporali, per potermi godere incontri, paesaggi, atmosfere.
Pertanto inizio il viaggio prendendo il treno Roma Brindisi che in 9 ore mi porterà al porto brindisino, dove troverò la nave per Valona; Vlora in albanese, quella Vlora che è stata anche nave che attraccò al porto di Bari l'8 agosto 1991,  con oltre 20mila passeggeri albanesi aggrappati e senza permesso. 
Quella Valona, città in cui il 28 novembre 1912 si proclamò l’indipendenza dello Stato Albanese, e dalla quale partirono a decine i gommoni con gli scafisti che trasportarono sulle coste pugliesi, centinaia di clandestini albanesi.

A Brindisi incappo nel primo problema che annuncia di un'Albania, ancora in mano a personaggi profittatori e cialtroni. Il mio biglietto prevede la partenza alle 23 dell'8 agosto, ed io, abituato ai contrattempi, ero arrivato a Brindisi alle 8 del mattino dello stesso giorno, per risolvere qualsiasi problema imprevisto. 
Ma se gli imprevisti sono il sale di ogni viaggio, e per loro natura superano qualsiasi immaginazione, ecco, mi si presenta subito la disorganizzazione e approssimazione della filiera turistica albanese, recandomi all'ingresso del porto presso l'ufficio della compagnia proprietaria del mio traghetto, la STAR FERRIES, ricevo risposte vaghe poi rivelatesi errate, su dove recarmi per imbarcarmi. 
Poi, dopo una giornata in giro per Brindisi, presentatomi con largo anticipo, al terminal, mi sento rispondere dalla nostra polizia di frontiera, tanto disponibile quanto disarmata davanti alla disorganizzazione delle compagnie navali, che la mia nave è partita alle 18, in anticipo di due ore. Quindi, aggiungono che non ci sono regole per l'imbarco, molti dei camion fermi sul piazzale sono lì da quindici giorni senza sapere quando partiranno.
Non sono il solo ad essere stato beffato dalla STAR FERRIES, ma uno dei pochi italiani in compagnia di tanti albanesi, di ogni età, compresi anziani e bambini, più contrariati di me nei confronti dei loro concittadini.

Nessun rappresentante della compagnia proprietaria della nave Red Star al quale chiedere spiegazioni e far rimostranze. 
Lo stile da “scafisti” non è cambiato. Continuano a fare la spola tra le due coste dell'Adriatico con navi molto simili a quelle carrette del mare che vennero agli inizi degli anni 1990 stracolme di umanità appesa a grappoli dai ponti. 
I modi arroganti del personale di bordo, cominciando dal comandante, e la cattiva abitudine a voler lucrare oltre le regole, autorità costituita che agisce ancora in stile burocratico e dittatoriale che pretende prepotentemente di aver sempre ragione in maniera arrogante e strafottente. 
Il trasformismo si evince anche nel nome della compagnia e della nave, nelle quali c'è il ricordo di un tempo appena passato, quello della stella rossa comunista.
Quindi non mi rimane che prepararmi ad una notte di attesa, tra albanesi di ogni età e provenienza, ammirevolmente dignitosi che hanno imparato a subire senza lamentarsi quasi. 
Persone che rientrano nel proprio paese dopo sei, dieci anni, dopo esserne usciti rocambolescamente per cercar fortuna ed essersi fatti una posizione, senza risparmiarsi, combattendo contro pregiudizi e ostilità italiane, ai quali hanno sempre risposto come figli riconoscenti e affezionati a un genitore autoritario e despota.

La notte è calda e prima di mettermi a sonnecchiare su una delle sedie di metallo del terminal, tra un anziano steso a terra e un ragazzo che allunga le gambe sulla valigia, 2 bambine sistemate amorevolmente a terra, coperte alla meglio da mamma e papà, approfitto per unirmi con la mia pipa al fumo delle sigarette di due albanesi, con i quali condividiamo l'accendino, idee, impressioni sull'Italia e racconti del loro passato albanese. 
Apprendo come il regime abbia saputo essere duro, spietato, inumano, ammantando la sua opera di efficienza apparente. 
Famiglie controllate fuori dall'uscio, anche quando facevano l'amore, imprigionati, anche solo per un lamento o, peggio una delazione; camionisti che obbligati a seguire un percorso, per uscire e rientrare dal paese, trasportando merci ma non idee “sovversive”; cibo razionato mensilmente, sulla base del numero di componenti della famiglia e di nuclei familiari del paese di appartenenza. 
L'angoscia di vivere in un paese ovattato convinti dalla propaganda, di essere felici e circondati da un mondo occidentale Capitalistico e Imperialistico di cui Radio Tirana annunciava il crollo imminente.

Ore 6,30, risveglio concitato; la nave Red Star è in porto, sta già caricando le auto.
Ma gli imprevisti non sono finiti. 
Passaggio della nostra frontiera senza problemi, semplificato dalla possibilità di presentare la sola Carta d'Identità. 
In mano il mio biglietto online, mi presento all'imboccatura del traghetto per pagare i miei 5 euro di tassa d'imbarco ma il commissario di bordo, con fare arrogante, vuole fraudolentemente sottrarmi altri 60 euro rifacendomi pagare il biglietto, affermando che il foglio in mio possesso è solo una prenotazione. 
Dimostratogli sms della banca alla mano, che il pagamento è stato regolarmente effettuato con carta di credito, mi intima di andare presso l'agenzia della Compagnia che si trova a 500 metri dal porto e che, naturalmente, non aprirà prima delle 9. rischio di perdere anche questo traghetto. 
Dopo un inutile braccio di ferro col commissario, riesco a risolvere la situazione solo grazie all'intervento di una guardia privata del porto che, avendomi conosciuto la sera prima, come nei migliori film di spionaggio, ferma una macchina alla barra della dogana; il finestrino si abbassa, breve scambio di battute, poi un braccio si allunga, chiedendomi la ricevuta del pagamento e 10 euro. 
Tempo un quarto d'ora e il biglietto è nelle mie mani. 
Mentre salgo a bordo, il commissario con aria sarcastica, degna di un poliziotto di regime: “Visto, abbiamo sempre ragione noi!” 
Non ci sono commenti, ma l'amarezza per un modo di comportarsi da parte della compagnia di navigazione e dei suoi dipendenti, che offendono, per primi, proprio gli onesti lavoratori albanesi, anch'essi truffati sulle tariffe con cavilli vari; un pessimo biglietto da visita per un paese che invece si dimostrerà estremamente ospitale a fronte di grandi problemi endemici di arretratezza.

IL VIAGGIO IN NAVE

Finalmente a bordo, mi aspettano circa 6 ore di viaggio.
Si parte! 
La nave lentamente passa nel canale di fronte alla città offrendo una bella visione d'insieme di Brindisi.

Ancora un po', e costeggiamo l'area industriale; poi, dopo aver oltrepassato un piccolo faro posto su un isolotto, prendiamo il largo in un mare Adriatico calmo sul quale la nave scivola sull'acqua, mentre a bordo c'è chi si dispone pigramente sul ponte a prendere il sole, chi nella sala bar e chi davanti all'immancabile schermo televisivo al plasma per guardare un film.
I bambini si rincorrono come in un grande giocattolo da vivere dall'interno. 
Qualcuno si lamenta per essere stato truffato sulle tariffe di viaggio; incredibilmente, proprio gli albanesi immigrati sono i più scandalizzati e contrariati dal fare truffaldino dei propri compatrioti; critiche che avrò modo di registrare, durante il viaggio di ritorno, nei confronti anche dei familiari, insofferenti della loro incapacità a fare il salto di qualità, mettendosi in gioco per riuscire a costruirsi una posizione, rischiando, nel rispetto di regole condivise.

Mi spingo a prua, dove trovo ragazzi affacciati a guardare il mare, scrutando l'orizzonte, in attesa di vedere all’orizzonte apparire la silhouette delle alture albanesi. 
Mi fa una certa impressione trovarmi gomito a gomito con quegli albanesi che, 7/10 anni fa, fuggirono rocambolescamente da Valona, lungo la stessa rotta in senso inverso. 
Spettatore e testimone, raccolgo storie di giovani che arrivano da Milano, Genova, Trento, e che si sono fatti una posizione di tutto rispetto. 
Giovani che sono andati via adolescenti, e tornano adulti in una terra praticamente sconosciuta. 
Uno di loro mi dice che, i suoi colleghi italiani, incuriositi, avrebbero voglia di seguirlo in Albania, ma hanno paura, e lui stesso li capisce, anche perché avrà bisogno della guida del padre per orientarsi in questa terra madre e matrigna, e ha un po' di timore per chi e ciò che troverà. 
Scoprirò, ancora una volta, che i primi a non fidarsi degli albanesi sono proprio gli albanesi.

La situazione economica di povertà endemica, dal periodo ottomano alla dittatura di Enver Hoxha, ha lasciato la popolazione in uno stato d'indigenza, ancora oggi non risolto, tale che, porta tutti ed ognuno a combattere per una sopravvivenza a ogni costo; questo stato, unitamente alla voglia di scimmiottare la ricchezza occidentale, porta i tre milioni di abitanti, a corruzioni e furberie di ogni genere.

La navigazione continua a svolgersi con la calma piatta di un mare blu cobalto, in una giornata illuminata dal caldo sole d'agosto, affacciati a prua, scambiando parole alternati a lunghi silenzi altrettanto esplicativi, appoggiati con le mani giunte al bordo della nave; gli sguardi fissi di quegli emigranti, riempiono di emozione. 
Condividere da italiano, in mezzo a loro sentimenti e sensazioni contrastanti di felicità, preoccupazione e curiosità per un paese che, per alcuni più giovani, partiti adolescenti, che oggi tornano vincitori e un po' stranieri in patria, è sconosciuto quanto per me.

Eccola, un grido si alza, “terra, terra!”, l'eccitazione serpeggia, al pari di quella della scoperta dell'America. Anche questo è il fascino del viaggio per mare.
Di lontano, nella foschia marina si cominciano a disegnare all'orizzonte, le alture costiere d'Albania e dopo aver doppiato l'isola di Valona entriamo in una grande golfo.

Dai primi avvistamenti passerà ancora un'oretta di navigazione, durante il quale, sempre più vicini e distinti, si vedono i palazzoni colorati, sorti come funghi di recente, accanto agli scheletri delle vecchie palazzine grigie costruite dal regime, insidiate da questa nuova edilizia sciagurata, aggravata dalle macerie del vecchio regime comunista, accanto a rustici di case, come in Sicilia e in Calabria; caratteristica che ritroverò anche a Fjer, dove sono diretto, brutta testimonianza “palazzinara”, di una ricchezza apparente.

Il traghetto comincia le manovre di avvicinamento a un molo di un porto improbabili, costruito per barche di pescatori e gommoni, e così rimasto. 
E’ così sottile da chiedersi come possa attraccare, eppure, un altro, più in là è già attraccato.
La discesa comincia, in fila indiana, giù dalla scala di legno ricoperta dalla lisa moquette rossa, tra sorrisi emozionati, raggiungiamo la pancia del traghetto, dove le automobili già rombano cominciando a manovrare; conquistiamo la bocca del traghetto e, piede a terra. 
Il sole è a picco, mi avvio verso l'uscita, circondato da qualche bambino che vuole vendermi Cd musicali. 
Un quarto d'ora e sono davanti al vetro del doganiere, un rapido controllo al passaporto, qualche battuta di benvenuto e via, l'avventura comincia.

IN ALBANIA

Uscito dal porto, attendo mio genero che verrà a prendermi per portarmi a Fjer
Nel frattempo, la visuale di palazzi grigi, vetusti, mal rifiniti, strade polverose e piene di buche, qualche negozio semivuoto, tutto mi restituisce la memoria di quanto vidi arrivato al porto di Durazzo, più a nord, nel lontano 1992. 
Solo le automobili sono tutte nuove, tante, Mercedes per lo più, ma gli autisti continuano a guidare con la stessa anarchia.
L’atmosfera è buona, ma, oltre l’apparente arricchimento, tira aria di estrema povertà, come dieci anni fa.


32 km lungo una strada che scorre tra paesaggi agricoli punteggiati di ulivi e costruzioni non finite, simili all'abusivismo meridionale nostrano, mi fa sembrare di non essermi allontanato dalla costa pugliese.

Dopo 39 minuti, eccoci giunti a Fjer, nel traffico caotico della seconda città d'Albania, capoluogo del distretto omonimo. Si trova a 100 km dalla capitale Tirana, ed ha una popolazione di 82.000 persone. 

La posizione geografica favorevole dal punto di vista della rete stradale, le permette di essere la città più importante per il collegamento tra Nord, Sud, Ovest ed Est del paese.


Fjer si trova nella pianura di Myzeqe, una grande area agricola, distante circa 156 km dal mare Adriatico, e circa 100 km a sud di Tirana. L'area della città di Fier (Bashkia) si estende su un'area di 78 km². 
La più grande espansione è di 8,1 km in direzione est-ovest, e 10,7 km in direzione nord-sud. 
Dell'area urbana, circa 78 km², il 47,7% è a prati, il 5,4% a corsi d'acqua, l'11,9% è zona trafficata e il 34,9% è zona edificata.

Fjer è stata molte volte colpita da inondazioni e, solo negli ultimi anni, è stata protetta da questa calamità. 
Il clima Fjer è mediterraneo, con estati calde e secche, e piovosi inverni miti.
È circondata da una ricca storia, 3 siti archeologici di importanza nazionale come Apollonia (che avrò la fortuna di visitare), Bylis e Ardenica. 
Costituisce il più importante corridoio commerciale ed industriale del paese, che l’ha resa da sempre, capitale economica, e paradossalmente, anche per la vicinanza alla Grecia, il Nord geoeconomico del paese.
Si trova alla confluenza dei fiumi Devoll e Osum. 
A sud di Fjer ci sono le colline di Mallakastra (dove mi recherò).

Ci dirigiamo a casa Skenderaj i miei consuoceri, con mio genero Shkelzen che ha sposato la mia figlia più grande, Giovanna, con la quale mi hanno regalato la prima nipote Sara.
Sarò gradito ospite per 15 giorni, trattato come da noi accade ancora solo nel nostro meridione: i piatti migliori, brindisi continui. 
Avrò occasione di vivere dal di dentro la vita albanese, assieme ai mie consuoceri Agron e Mimosa, agli zii Dido e Xzemi, ai fratelli di mio genero Shkelzen, Bilo fidanzato con Ela (Elena), una brava e bella ragazza che studia da ostetrica a Tirana, che vive a casa dei futuri suoceri, dandosi molto da fare, e che, conoscendo bene l'italiano, sarà la mia interprete. Infine, la sorella Zana che, fidanzata ufficialmente, mi offrirà la possibilità di assistere e partecipare alla prima festa tradizionale familiare, nella quale i consuoceri si incontrano per la promessa di matrimonio. 
L'incontro avviene nel pomeriggio. 
Entrando, sull’uscio di casa si tolgono le scarpe, una delle abitudini orientali che l’Albania ha assimilato nella sua cultura, così come, i pavimenti di casa sono completamente coperti da tappeti, si mangia, per lo più, seduti su divani e si tira il collo alle galline nel bagno.

Si vive molto il vicinato e, per la gran cena in onore dei consuoceri, me compreso, per la quale serve una gran tavolata, si prenderà il bar sotto casa.

Passerò ore seduto in quel bar, come abitudine albanese, cercando di offrire, senza successo, una birra Peroni, la preferita, bevuta a fiumi; c’è sempre, la cattiva abitudine dei trattamenti diversi per locali e turisti, ma questa volta, sono dei loro e una consumazione costerebbe pochi lek (1 euro vale 137.59 lek). 
I tavolini ai lati del marciapiede a un capo del corso principale, guardando passare ragazze che sfidando le tradizioni, vestendosi in maniera succinta, provocando occhiate e apprezzamenti maschili; sorseggiando caffè (in albanese kafe) o una bibita fresca in bottiglia, allo yogurt condito col sale; già il sale, unico neo dell'alimentazione albanese, assieme alla carne, tanta, troppa, tutti giorni, e la troppa grappa. 
Da colazione a cena, senza soluzione di continuità, ogni occasione è buona per bere il raki (grappa bianca, distillato puro di vinaccia), spesso accompagnato dal kafe alla turca.
Il bar è incontro, miniera di storie e anche di amicizia; non mi è stato possibile mai mettere mano al portafoglio.
È davanti al tavolino del bar che incontro Tona un ragazzo di quarant'anni, buono come un pezzo di pane, che diventerà il mio amico albanese. 
Parla l'italiano perfettamente, cosa che qui in Albania è comune tra gli anziani che hanno partecipato alla nostra invasione durante il fascismo, e tra i giovani che aspirano ad emigrare in Italia, meno nella  generazione di mezza età.
Tona che ha avuto una storia familiare travagliatissima, a 13 anni era in Puglia a lavorare in una fabbrica di jeans, apprezzato dai padroni, purtroppo rimandato in patria perché non in regola con i documenti di soggiorno, in patria diventa camionista.
Precario, anzi lavoratore saltuario, quando raramente riesce a mettere il piede sull'acceleratore di un camion; un viaggio andata e ritorno, anche all’estero, gli vengono pagati 80 euro, qualunque sia la distanza e i giorni di viaggio. Nel caso in cui sia fermato e multato, gli viene addebitato. 
Durante il mio soggiorno, Tona non è mai partito, anzi, un suo collega gli ha soffiato un trasporto, ribassando il prezzo, pazzesco. 
Ben peggio, se di peggio si può parlare, un suo amico che, una mattina si siede al nostro tavolo per un kafe (pensare, si dice come in calabrese, che però aspira la prima lettera come in arabo); fa il manovale e per una giornata di lavoro viene pagato 10 euro. 
Tona, quando vorrò, mi sarà guida e guardia del corpo per farmi conoscere l'Albania. 
È buono, ma sa come farsi rispettare; come tutti gli albanesi, sa che, purtroppo, in questo paese, la legge ancora si fa rispettare con la pistola in tasca.

Tra un bar e l’altro, si pranza e si cena e, chi mi conosce, sa che sono una buona forchetta, che apprezzo ogni tipo di cibo, sotto qualsiasi latitudine e, quello a levante più degli altri, anche nella sua semplicità speziata. 
Il cibo albanese è semplice - in qualche modo risente di quello greco e turco - uguale quello giornaliero e quello della festa, molto legato alla civiltà agro pastorale: ricco di carne (agnello, vitello, pollo e maiale), vegetali (cetrioli, pomodori, peperoni, ecc.), patatine fritte, molto yogurt, trasformato anche in bibita e salsa spalmabile, oltre che in formaggio, la feta, che condividono con la vicina cultura alimentare greca, ottenuta salando lo yogurt  lasciato a riposare l’intera notte.

La cucina albanese, ha il piatto base costituito da riso pilaf e tasqebap, un piatto con spezzatino di vitello cucinato con aglio, cipolla, alloro, burro, olio, vino bianco e sugo di pomodoro.
Di norma i primi e i secondi piatti, sono sostituiti da un piatto unico.
Si usa molta carne, in particolare quelle di agnello, vitello, pollo e maiale; a pranzo e cena verdure varie accompagnate a volte dalla carne.
Nella parte centrale il piatto tradizionale è il Tave Dheu (gamberetti con burro infarinati e fritti aggiunti a panna e formaggio fuso (Gouda). Il tutto cotto al forno). 
Ottimo è pure il cosiddetto Byrek, un fagottino al forno, ripieno di uova yogurt e formaggi vari, cucinato dalle casalinghe in diversi modi, utilizzando diversi alimenti provenienti soprattutto dal latte.
Nelle parte meridionale un piatto tradizionale, usato principalmente per colazione, è il Trahana, cibo disidratato costituito da una miscela fermentata di grano e yogurt, di norma consumata come zuppa con l'aggiunta di acqua o latte

Uniche testimonianze di antica religiosità (vedi Storia religiosa Albania), pochi Conventi rimasti dopo centinaia di anni di soppressioni e distruzioni, Chiese Ortodosse coperte di affreschi e icone, e Moschee, conservati in qualità di beni archeologici, testimonianze storiche; ma la religiosità no, e gli uomini di Chiesa, carcerati a vita dal regime, ancora oggi stentano ad essere rimpiazzati, per un popolo reso agnostico dal lungo regime di Hoxha, che nel solco della tradizione storica ha fatto tabula rasa di ogni spirito religioso.

Così, oltre a peregrinare alla scoperta dei luoghi di Fjer, con Shkelzen, grazie allo zio Dido che con la bellissima e sempre sorridente figlia tredicenne Cretana, abbiamo fatto un paio di immersioni nei beni archeologici artistici paesistici e architettonici albanesi.


La prima, al  bel Monastero di Ardenica del quale siamo riusciti a vedere solo la Chiesa e l'esterno del  Convento, in quanto, come spesso avviene in questo paese senza regole, un privato avrebbe tirato fuori un documento che attesterebbe la proprietà del terreno ancor prima della costruzione del convento (da ridere).


La seconda ad APOLLONIA in Illiria, (clicca per andare a leggere notizie) conosciuta come Apollonia (Απολλωνία προς Επιδάμνω in greco antico) un sito archeologico posto su una collina dominante una pianura di terra fertile, a perdita d’occhio fino al mare all’orizzonte; sulla riva destra del fiume Aous, nei pressi del villaggio di Pojan.

La città fu "riscoperta" con il movimento del Neoclassicismo europeo del XVIII secolo (1700), benché non fu indagata prima dell'occupazione del 1916-1918. 
I primi scavi furono seguiti da un'equipe francese negli anni 1924-1938 e parte del sito fu danneggiato durante la Seconda guerra mondiale. 
Dopo la guerra nuovi scavi furono condotti da esperti albanesi a partire dal 1948, ma molto del sito archeologico non è stato ancora scavato ai giorni nostri.
Molti degli oggetti trovati sono stati trasportati nel museo della capitale, Tirana, ma durante il periodo di anarchia che seguì la fine della dittatura in Albania nel 1990, molti dei beni archeologici, manufatti e rovine, furono trafugati per essere venduti a ricchi mercanti e collezionisti occidentali all'estero.

Il sito è estremamente suggestivo, visitato nelle ultime ore del giorno, al tramonto, con un'atmosfera piena di mistero sia nell'area archeologica romana dalla quale la vista da un lato si perde all'orizzonte in una piana completamente verde senza alcuna costruzione, dall'altro una zona collinare punteggiata da enormi bocche di bunker fatti costruire dal dittatore che paventava una assai improbabile invasione occidentale.


Ma Apollonia non è solo archeologia; 
altrettanto mistico e suggestivo è il vicino Monastero con la Chiesa di Shën Mëri (Santa Maria). 
In ottime condizioni perché restaurato, doveva contenere un museo ma a tutt’oggi solo statue in marmo di buona fattura abbandonate sotto le pensiline. 
Si varca il grande portone di legno e ci si trova immersi in una visione da sogno; silenzio e atmosfera mistica riempiono il cuore. 
Al centro la chiesa intitolata alla Madonna a croce greca col campanile svettante e, dintorno il convento che la contiene in un caldo abbraccio, tutto pietra e legno e tetti in coppi di cotto.

DA FJER A MALAKASTRA

Arriva il giorno di partire per Kut il paese originario di papà Agron, mio suocero, dove vivono gli zii Gezim, ex fabbro che mi farà da cicerone per farmi conoscere il paese, e il fratello Resmi che lì fa ancora il contadino e il pastore.
Dopo la ricerca e le contrattazioni di rito con il proprietario di un pulmino, ci imbarchiamo per Malackastra.



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Usciti da Fjer, lasciamo il traffico cittadino e intraprendiamo la strada per Gjirokastro che sale deserta, stretta, come una nostra provinciale, per 44,4 km di curva in curva, su su per le colline di Malakastra. Attraversiamo tre piccoli centri abitati e un’area grigia puzzolente di petrolio, punteggiata di trivelle stile preistorico, ancora in funzione molte, altre abbandonate, monumenti all’archeologia industriale.

Dopo 37 minuti abbandoniamo la strada principale, la vista apre su una verde vallata, circondata da colline e percorsa da un fiume; ci buttiamo a capofitto in una stradina tutta buche che in breve ci porta ad un grumo di case intorno ad una piazza dove l’asfalto ormai è un ricordo, su cui si affacciano tre piccoli bar, un centro sociale ambulatorio, e il piccolo comune.

Bambini festanti si avvicinano e mostrano soddisfatti sacchetti pieni di tartarughe; tartarughe di tutte le grandezze, medie piccole e piccolissime. 
Una caratteristica del luogo, scorrazzano libere e sbucano da ogni dove rischiando perfino di essere pestate.

Durante la guerra d'Albania i nostri soldati, ricordati come brava gente, abbandonato il fucile, si conquistarono la simpatia della popolazione con la capacità di lavorare la terra e mangiando tartarughe, tante, da conquistarsi l’appellativo di magia tartarughe.

Raggiungiamo la casa dello zio girando attorno all’edificio del comune.
Una villetta a 2 piani, immersa nel verde. 
Sotto, la zona giorno in cui l’interno vive in maniera osmotica con l’aia esterna, dove si svolge l’attività giornaliera, si mangia, si uccidono e puliscono gli animali, mentre le galline e l’oca con i piccoli, si aggirano in attesa degli scarti, si lavora il latte per produrre il burro, ci si rilassa e si discorre fino alla sera con il cielo stellato per tetto. 
Un po’ più in là, lo spazio dell’asino, delle due mucche e delle capre.

Accanto, il vicino, un poliziotto sempre un po’ alticcio, che sotto il sole cocente, con il suo alambicco in rame, produce litri di raki, che cercherà con insistenza ossessiva cercherà di farmi bere.
Una difficoltà culturale alla quale non si pensa, è la possibilità di far capire le norme igienico sanitarie e l’educazione alimentare, soprattutto cercando di non colpire la suscettibilità e il senso dell’ospitalità. 
In un paese in cui, per dimostrare la tua mascolinità, devi trangugiare litri di grappa e si mangia carne a volontà, il tutto salato a gogo, è difficile spiegare che si è a dieta, il sale fa male alla pressione e la troppa carne fa male e può risultare cancerogena.

Il fratello di Agron che a cavallo, ogni giorno, raggiunge i sui campi coltivati a vite e porta al pascolo le sue 2 mucche, mi invita ad andare con lui; ben volentieri ma a piedi e non crede sia possibile, ma si ricrederà. 

In campagna troviamo altri uomini e ci sediamo a chiacchierare; nonostante io non conosca l’albanese e loro l’italiano, riusciamo a capirci.
Mi fanno assaggiare l’uva dolce da vino e ci dissetiamo tirando su l’acqua fresca da un pozzo artesiano. Al tramonto si torna a casa e passeremo la sera a discutere sul ruolo della donna.

Un vago ricordo dell'Islam rimane nei rapporti uomo donna albanesi. 
Le donne sono soggette all'uomo, più o meno; obbligate a stare in casa a sfaccendare tutto il giorno, dalle prime ore del mattino, mentre l'uomo passa la giornata al bar con gli amici o sta a fumare guardando a televisione, compagna di sottofondo della giornata.
Le figlie non possono, o non potrebbero uscire di casa se non fidanzate, motivo per cui nel 1992 non riuscii a vederne, ma oggi, con le aperture e gli scambi con l'Italia, tutto è cambiato. 
Se una ragazza piace a un ragazzo, anche adocchiata a distanza, se scelta, è costretta a sposarlo.
Qui arriverò a vedere donne sottomesse che lavano i piedi all'uomo al suo ritorno dai campi.
Alla mia obiezione, mi viene risposto, in maniera cortese ma ferma, che il ruolo della donna è di servire l’uomo. 
Nel caso si rifiuti, devono essere battute come il maiale, e se necessario, chiusa in una stanza fino ad essere piegata a maggiore mitezza. 
Ribatto che da noi esiste un telefono rosa per la difesa dei diritti femminili, e la pronta risposta è: “basta tagliare il filo del telefono”.

In vista di una grande cena per festeggiare l'imminente matrimonio di una delle figlie, vengo coinvolto nella mattanza di 2 capretti.
È la prima volta che assisto alla morte di un capretto e mi colpisce la mitezza con la quale va alla morte.
È un rito al quale partecipa tutta la famiglia; il padre si occupa dell'uccisione e con la collaborazione della moglie alla scuoiatura, pulitura e preparazione per la cottura.
Le figlie puliscono le interiora che verranno anch'esse cucinate. 
A cena, a me verrà dato il lombo giudicato la parte migliore, riservata all'ospite d'onore, nel caso in cui non riesca a mangiarla tutta, gli viene conservata per il pasto successivo.

Ma il mio soggiorno albanese volge al termine e da Malakastra torno a Fjer, per poi riprendere la strada per Valona, da dove il traghetto mi riporterà a Brindisi.
Sul traghetto, incontro gli albanesi di ritorno e ascolto le loro lamentele nei confronti di parenti e connazionali che hanno ritrovato e lasciati, persi in uno stato di indigenza mentale e culturale ostinata.  Loro, figli della madre patria Albania, smaliziati ed evoluti, non la vedono pittoresca con i miei occhi di viaggiatore, ma, criticamente, come un paese di cartone, cementificato e arricchito di denaro, senza un progetto di crescita sociale, morale e culturale.

Pietro (Pjeter) Marrubi fotografo a Scutari

In Albania l’arte della fotografia arrivò solo 17 anni più tardi dopo la sua nascita nel 1839. 
L’italiano Pietro Marrubi, esportò la tradizione europea della fotografia in una delle zone più sviluppate dell’Albania del XIX secolo (1800): Scutari.

Nel 1856 Marrubi aprì il primo studio fotografico albanese, per tale motivo ebbe notevole fama in tutta la penisola Balcanica. 
Pietro Marrubi era un garibaldino, scappato da Piacenza per ragioni politiche. 

All’inizio si recò in Turchia, successivamente in Grecia e infine in Albania, per la precisione a Valona. 
In nessuno di questi luoghi riuscì ad ottenere l’asilo politico poiché implicato nell’omicidio dell’allora sindaco di Piacenza.
www.tili.it/netdaysScutari/la_fototeca.htm


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Commenti

Anonimo ha detto…
bello e interessante, potresti confrontarli con i miei articoli, per concludere comunque che è un paese vicino, ma molto lontano...
posso chiederti il tuo contributo al nostro blog www.socialtrekking.it? Troverai che molti dei tuoi articoli possono starci benissimo.
buon cammino
alessandro vergari