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Storia culturale della fotografia italiana


A cosa si contrappone l’aggettivo culturale nel titolo del prezioso libro di Antonella Russo, Storia culturale della fotografia italiana, recentemente pubblicato da Einaudi? Penso si contrapponga alle troppe storie autoriali della fotografia, a quelle sequenze impaginate e rilegate di nomi, scuole, generi, che riducono la fotografia a un ramo della storia dell’arte, con una premessa sull’invenzione e sui pionieri e qualche annesso (fotogiornalismo, fotografia scientifica) che non si sa mai bene dove mettere.


Almeno nelle premesse, il tentativo di Antonella è finalmente diverso: scoprire e raccontare il posto della fotografia nella cultura italiana del dopoguerra, indagare se e come la fotografia sia stata un elemento importante della vita, del dibattito e dell’industria culturale nazionali, in che modi abbia pensato se stessa e in quali altri modi sia stata pensata da altri.

Va detto per prima cosa che, vista in questa prospettiva più vasta, la fotografia italiana esce dal racconto di Russo con le ossa discretamente a pezzi, svelando svela tutta la sua fragilità costituzionale, vaso di coccio dei nostri consumi culturali fra ben altri vasi di ferro (il cinema, il romanzo) che seppero trovare molto prima e molto meglio le proprie identità di medium dopo la nebbia del Ventennio.

Quella che racconta Russo è la storia di uno strumento di comunicazione e di creazione che rimase ancora a lungo, e forse non ne uscì mai, in uno stato di dipendenza e subordinazione sia materiale che psicologica rispetto al mainstream culturale dell’Italia della ricostruzione: relegata dalla cultura crociana e idealista nel retrobottega della produzione culturale, tra gli attrezzi tipografici; invisa alla cultura di sinistra, real-socialista sì ma in quegli anni ancora incapace di misurarsi con la comunicazione visuale; tenuta al guinzaglio da intellettuali verbo-centrici (vedi il conflitto Vittorini-Crocenzi sull’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia, o l’atteggiamento di superiorità e strumentalità dell’antropologo Ernesto De Martino nei confronti del lavoro dei “suoi” fotografi); frustrata nel tentativo di raccontare il paese reale dall’editing (vedi il geniale ma assoluto dispotismo di Pannunzio sul suo Mondo) e poi dalla linea editoriale sempre più frivola dei rotocalchi.
Le stesse originalità della fotografia italiana, in realtà stereotipi superficiali ma di lunga vita, ovvero il neorealismo, il paparazzismo, escono da questa lettura ridisegnati in modo assai meno mitico, come “generi-rifugio” per un medium che non ottiene mai un pieno riconoscimento di status culturale. La sfortuna editoriale e critica di Un paese di Paul Strand e Cesare Zavattini, che Russo definisce “l’unico fotolibro” della nostra vicenda nazionale, ne è la prova.

È esistita dunque, o non c’è mai stata, una cultura fotografica, nella storia più ampia della cultura italiana? Alla fine la risposta è sì, è esistita, anche se dovremo forse definirla una sub-cultura (non in senso dispregiativo, ma nell’accezione americana di sistema di opere, stili, valori e messaggi che nascono e circolano in un ambito ristretto di praticanti); ed è questa “subordinata fotografica” della cultura italiana che Russo racconta, con uso di fonti ampie e finora sottovalutate, nei capitoli migliori del libro, quelli dedicati alla fotografia amatoriale, alla nascita e allo sviluppo della Fiaf, all’impatto delle suggestioni straniere (l’arrivo in Italia, fondamentale, della mostra The Family of Man, equivalente visuale del Piano Marshall, o la scoperta malcompresa di Cartier-Bresson) sul mondo degli appassionati, al ruolo di riviste originali come Ferrania, delle scuole, delle grandi mostre, alla nascita faticosa di una critica e di una storiografia specializzate. Meno efficaci, forse perché argomenti già molto esplorati, i capitoli sul fotogiornalismo e sulla fotografia d’artista (dove il “canone” dei nomi celebri forzatamente si impone di nuovo).

Restano fuori da questo quadro ancora alcuni ambiti del fotografico, non indifferenti. Le fotografie private, quelle utilitarie e tecniche, le “semplici fotografie” che riempiono in realtà le nostre giornate e i nostri sguardi. Del resto è una carenza di tutta la nostra storiografia fotografica (con l’eccezione dei libri e soprattutto delle riviste irriverenti di Ando Gilardi) questa mancanza di un racconto documentato dei modi e dei sistemi di fruizione, di consumo, di condivisione e di disseminazione delle fotografie, sia prima che dopo Internet, ovvero le modalità con cui milioni di italiani interagiscono quotidianamente con l’idea e la pratica della fotografia.

Ma probabilmente non era negli scopi di questo libro, che si occupa di storia culturale della fotografia italiana, affrontare anche questi argomenti che contribuirebbero a completare il quadro in una ancora non scritta storia della cultura fotografica italiana.
(da la Repubblica.it / di Michele Smargiassi)

Antonella Russo
Storia culturale della fotografia italiana. Dal Neorealismo al Postmoderno
502 pagine; 180 foto b/n e col; 13,6x20,8 cm
€ 35

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